Umuntu Umuntu Ngabantu - Lorenzo Davia - IV° Concorso Fantascienza LGBTQI - 3°Classificato

Umuntu Umuntu Ngabantu
Lorenzo Davia

I miei genitori mi aiutano ad abbottonare la camicetta. Ho sei anni, ma non sono un bambino, anche se loro mi trattano sempre come tale. Mi vogliono bene. Scosto la tenda ed entro nella stanza dove sono gli altri. Cammino tra le persone che si inginocchiano davanti a me. Resto sempre intimorito dalla loro devozione. Temo di non meritarla, o di fare qualcosa di sbagliato e perderla. Ma so che non dipende da quello che faccio. Dipende da quello che sono.
Ritorno con la mente agli eventi che precedettero la mia nascita, sei anni fa.

Stavo bevendo il te nel giardino di casa mia, godendo del panorama curvo dell'habitat quando mi arrivò il messaggio via insys di allerta da parte del Ministro dell'Interno. Dieci secondi dopo atterrò il flyer del Ministero della Difesa.
Oltre i vetri dell'abitacolo vedevo tre uomini in completo nero e occhiali da sole. Tipici agenti del MinDef. Tutti uguali.
Mentre finivo il te contattai via insys Odinga, la mia collega.
“Mi serve un mano. Ho un allarme di priorità uno e tre agenti del MinDef che mi aspettano.”
Posai la tazza sul tavolino e tornai in casa a cambiarmi.
“Buongiorno anche a te. Come sto? Bene grazie.”
“Odinga, ho poco tempo. Chi mi hanno mandato?”
“Mi collego ai loro sistemi. Ecco. Ketan Lakhami, agente operativo di livello Alpha–1. Gli altri due sono Mulago Dzobo e Xhosa Quamata, sgherri poco importanti, ma tosti.”
Appena fui vestito ritornai in giardino. Aprii il portellone e salii a bordo.
– Buongiorno, sono Bani Orwa.
– Ketan Lakhami. Abbiamo fatto con comodo – disse quello seduto davanti.
Capelli corti, mascelle squadrate. Erano proprio tutti uguali.
– Non volevo venire in pigiama.
Ketan fece decollare il flyer. Non mi presentò gli altri due, confermando il fatto che fossero di sostegno e senza poteri decisionali.
– Allora, cosa succede di così grave?
– Non sa niente?
– No. Ho ricevuto l'ordine di unirmi a voi meno di un minuto fa.
– Riguarda i due profughi robot che abbiamo accolto l'altra settimana. Si è formata una folla ostile davanti all'edificio che li ospita. C'è stato un attacco tramite nanobot.
– Vittime?
– Nessuna. I nanobot erano programmati per attaccare solo la materia inanimata. Sono stati neutralizzati.
Il flyer tagliò l'habitat passando nei pressi del lungo sole artificiale. In quel momento era mattino, e la fonte che ci dava luce e calore era all'estremità “est” del cilindro. Casa mia si trovava a mezza via: passammo vicino alle condutture spente del plasma al centro. La gravità lì era quasi inesistente: sopra e sotto persero di significato, e quando lo riacquistarono, stavamo sorvolando una quartiere di uffici.
– Non è la prima volta che ospitiamo robot profughi. Capisco che abbia suscitato delle perplessità il fatto che il governo abbia nascosto la loro presenza, ma arrivare addirittura a un attacco e a una crisi parlamentare mi pare eccessivo.
– C'è stato un elemento nuovo, diffuso tramite vie non ufficiali e ripreso dai media. Le invio una relazione.
Il file arrivò al mio insys e lo aprii. L'interno dell'abitacolo fu sostituito dalle foto dei due robot.
– Sì – dissi chiudendo il file – convengo che questo cambia molto. Chi ne era informato?
– È stata aperta una commissione di indagine per scoprirlo.

I robot erano ospitati in un edificio a tre piani nel settore ovest dell'habitat, a pochi chilometri dal Mare del Tramonto. Una folla di persone era radunata là davanti. Dall'alto potei vedere che proiettavano ologrammi con scritte ingiuriose.
Attorno all'edificio c'era un cordone di poliziotti e mezzi antisommossa. Volando attorno all'edificio vidi la parte che era stata attaccata: un angolo della costruzione era scomparso, divorato dai nanobot. Potei vedere poltrone, gabinetti e tavoli che venivano controllati dai droni per assicurarsi che non ci fossero residui di nanobot.
Un pozza di materiale scuro, come plastica fusa e raffreddata, giaceva ancora fumante nel parcheggio sotto l'angolo violato.

Il flyer atterrò sul tetto dell'edificio.
– Mi aspettavo che i robot fossero accolti in una delle strutture per profughi che abbiamo allestito.
– Questo edificio è del Ministero degli Esteri.
Controllai con l'insys: l'edificio era usato per ospitare delegazioni commerciali provenienti da altri habitat.
– Perché li hanno sistemati qua?
– È qualcosa che dovremo chiedere al MinEst.

Ketan e gli altri puntarono subito all'ascensore, io mi diressi al parapetto. La folla fischiava e urlava. Tizi con l'alto parlante intonavano canti religiosi o discorsi politici.
Lessi le oloscritte: “Robot conto Dio”, “Carne > Metallo”, “Vuoi che tuo figlio diventi un robot”?
Sentii gole schiarirsi dietro di me. Mi stavano aspettando.
Scendemmo di un piano. Nel corridoio venimmo accolti da un tizio che si presentò come Afete Nyamiti, del MinEst. Era il direttore del centro dove ci trovavamo.
– Non siamo abituati a ricevere tutte queste attenzioni – disse indicando la finestra e la folla là fuori. – Ma ho già messo in atto un protocollo difensivo. Apprezzo l'interesse del Ministero della Difesa e di quello degli Interni, ma possiamo cavarcela da soli.
– Temo che lei stia fraintendendo la nostra presenza – disse Ketan. – Non siamo qui solo per difendere gli ospiti, ma anche per verificare le implicazioni politiche e di sicurezza dell'habitat. Inizi spiegandoci perché erano ospitati qui. Hanno delle implicazioni economiche?
Il tizio mi guardò cercando qualche appiglio. Glielo negai: la domanda incuriosiva anche me.
– Questo è un segreto – disse – che non ha alcuna relazione con la situazione attuale.
Io e Ketan ci scambiammo una rapida occhiata.
– Vogliamo vedere gli ospiti – dissi.

I robot stavano seduti come due umani sulle poltrone di finto cuoio. Si alzarono in piedi quando io e Ketan entrammo nella saletta schermata. Indossavano un completo elegante. Gli stava anche bene, dato che il loro chassis imitava il corpo umano.
Nel cranio di metallo inespressivo erano incastonati due occhi le cui iridi brillavano di un verde incandescente.
Ci presentammo. Avevano sigle come nomi: 1D74 e R186G. Le loro voci erano quelle di un uomo di mezza età, identiche.
Riuscii a vincere l'imbarazzo e strinsi loro la mano. Era calda, di una materia plastica piacevole al tatto. Ketan non gliela strinse.
– Chi di voi due? – disse invece.
R186G, senza dire niente, si tolse la giacca con movimenti lenti, sciolse il nodo della cravatta e si sbottonò la camicia.
Il robot aprii i lembi della camicia. Ketan bestemmiò. Mi avvicinai per vedere meglio.
Sotto le costole metalliche il ventre trasparente era attraversato da una spina dorsale cromata. Nel liquido amniotico galleggiava un feto, il cordone ombelicale saliva verso il torace metallico di R186G. Era al quarto mese.
– Come avete potuto? – mormorò Ketan.
1D74 dovette capire male la domanda.
– Abbiamo sintetizzato il DNA da una banca dati, e l'abbiamo impiantato in un ovulo da noi creato. Abbiamo aggiunto dei nanoimpianti per assicurarci che la gravidanza vada bene. Al momento la sua mente è un banco vuoto, ma appena finisce il nono mese faremo un upload misto delle nostre menti.
– Upload delle menti?
– Sì, visto che non può essere nostro figlio geneticamente, sarà nostro figlio mentalmente. Possiamo dire... spiritualmente.
Ketan bestemmiò.
– Come sta? – chiesi.
– È sano – rispose R186G. – La gravidanza procede bene.
Bussarono. Mi collegai alle telecamere esterne del corridoio. Era Dzobo. Feci un cenno di assenso a Ketan, che aprì la porta e lo fece entrare.
– Ci sono movimenti sospetti tra la folla.
– Dobbiamo portarli in un posto sicuro – dissi.
Ketan mi guardò storto: – Dove?
– Organizzo io.
Chiamai Odinga. Chiesi un'estrazione dall'edificio e l'uso della casa sicuro presso le Montagne dell'Alba.
“Ho monitorato le comunicazioni del MinDef.” mi disse la collega. “Sono nervosi: uno della vostra squadra non è affidabile.”
“Chi?”
“Non lo dicono.”
– Era meglio se organizzavamo noi la cosa – disse Ketan.
– Troppo tardi. – risposi. – Meglio non perdere tempo.
Ketan fece un lento cenno di assenso al suo scagnozzo. R186G si era rivestito.
– Questo posto non è sicuro – dissi. – Vi trasferiamo.

Scortammo i due robot lungo il corridoio che portava all'ascensore. Ketan ci precedeva assieme a Dzobo. Quamata e io chiudevamo la fila.
Odinga mi contattò: “Ho decifrato un messaggio con il nome del traditore.”
“Chi è?”
“Sei tu”
Io non ero affidabile. Non ero d'accordo con loro. Capii: erano loro i traditori. Tutti e tre. Stavamo per portare i robot in una casa sicura del MinInt. Se volevano fare qualcosa, dovevano agire adesso.
E quindi anch'io.
Estrassi la pistola dalla fondina nel momento in cui lo fece Quamata. Sparai per primo e lo colpii.
1D74 afferrò R186G e si buttarono a terra, un clangore metallico che coprì il suono degli spari.
Ketan e Dzobo avevano le pistole in pugno. Sparammo. Dzobo finì a terra, Ketan si rifugiò dietro un armadio.
Ero ferito. Mi tastai il fianco. Sangue e dolore su tutto il lato destro del mio corpo. Gli innesti medici lottavano contro il danno fisico. Arrancai oltre i robot, diretto verso l'armadio.
– Perché li difendi – urlò Ketan – sono robot!
– Perché è il mio lavoro – mormorai.
Ketan sbucò fuori, facemmo fuoco nello stesso momento. Lo colpii e cadde a terra. Lui mi prese in pieno petto. Crollai al suolo, l'insys che mi mostrava decine di icone nere.

Il governo voleva dai robot un segreto prezioso: l'upload mentale. Cavi dati uscirono dalla testa di R186G e iniziarono a penetrare nel mio cranio. Il travaso fu come scivolare in un tunnel buio. Non so perché lo fecero. Forse consideravano preziosa ogni vita. O ebbero pietà di me.


Oggi il governo ci dà ancora la caccia, anche se in un habitat come questo ci sono molti posti dove nascondersi. Siamo in molti, li vedo mentre cammino tra di loro, prova vivente della possibilità di resurrezione. Dietro di me camminano 1D74 e R186G, i miei genitori. Tutti loro rinasceranno da R186G, e così saremo tutti fratelli e sorelle.